Qui di seguito l'intervista di Luca Ferrua a Carlo Petrini, fondatore di Slowfood
Era il 1990 quando Carlo Petrini, presidente di Slow Food, pubblicava l’«Atlante» dei grandi vini di Langa e cercava di fare ordine in un territorio dall’affascinante caos enologico. Negli stessi anni nasceva proprio Slow Food e Petrini diventava un guru del cibo «buono, pulito e giusto», della sostenibilità delle grandi sfide della Terra. Ma il vino, e in particolare quello di Langa, è sempre sotto la sua attenta lente di osservatore e quelle bottiglie di Barolo vendute a 9 euro non gli sono andate giù.
Buongiorno Petrini, la pandemia ha colpito duramente il mondo dell’agroalimentare ma anche questa volta la sensazione è che ci siano vinti, i produttori, e vincitori, come ad esempio la grande distribuzione, lei cosa ne pensa? «Se da una parte la grande distribuzione, che ha conosciuto in questo periodo un forte incremento, è stata un importante sbocco per i prodotti agroalimentari, dall’altra la vendita diretta e la ristorazione sono drasticamente precipitate creando eccedenze consistenti in tutto il settore. In particolare in quello dell’agroalimentare di qualità, che ha nella ristorazione e nella vendita diretta il suo sbocco principale. In questa situazione di accumulo di invenduto, i produttori sono sotto scacco e la grande distribuzione che ha liquidità e sbocco sul mercato ha buon gioco, e in molti casi offre prezzi inferiori al costo di produzione. Bisogna intervenire al più presto per prevenire situazioni che sono disastrose per il nostro settore agroalimentare, specialmente quello costituito da piccoli produttori e artigiani».
I picchi negativi del prezzo del Barolo di cui si è parlato nelle ultime settimane rientrano in questa analisi? Perché è accaduto? «Anche qui, per certi versi, stiamo parlando di eccedenze. Io, però, preferisco parlare di mancanza di strategia. Questo crollo del prezzo è molto grave: stiamo parlando di Barolo, un vino simbolo di un territorio e perno di un’economia. Ma è una crisi che ha radici lontane. Abbiamo assistito a una crescita esponenziale delle bottiglie prodotte dal 1991 al 2018: sono passate da 8 milioni e mezzo a 14 milioni e trecentomila. Quando ho iniziato l’avventura di Slow Food si parlava di qualche milione di bottiglie. Negli ultimi anni si sta assistendo in tutta la Langa all’espianto del dolcetto e della barbera per mettere nebbiolo da Barolo. Questo, dopo aver, negli anni, impiantato nei fondivalle un tempo destinati a prato, aver assistito a disboscamenti, aver cambiato inclinazioni ed esposizioni a colline per renderle adatte alla vite.
Si è prodotto troppo Barolo?
«Sicuramente c’erano zone ancora vocate non sfruttate, ma abbiamo esagerato. Un rapporto armonico richiederebbe la presenza di più vitigni e che quello di eccellenza fosse impiantato solo nelle zone migliori e coltivato con la cura e l’attenzione necessarie a giustificare il prezzo a cui viene proposto. Non dimentichiamoci poi che il Barolo ha bisogno di tre anni di invecchiamento. Quello a cui stiamo assistendo è un esempio di malgoverno e di miopia»
Non si poteva gestire meglio? È un caso soltanto piemontese? «Ci sono altri casi ma il Barolo ha un prestigio e un’immagine nel mondo importante. Pur in presenza di casi simili, il danno di immagine del Barolo è nettamente più alto e anche le sue ripercussioni. Un po’ prima dell’inizio della pandemia, con soldi pubblici, è stata realizzata una manifestazione a New York dove si decantavano i pregi del Barolo e quindi si giustificava la sua valutazione economica. Adesso come possiamo giustificare in giro per il mondo che il Barolo è svenduto in questa maniera. È un danno enorme. La crescita infinita non è la politica giusta per prodotti come il Barolo che hanno nel fattore pedoclimatico un elemento essenziale».
L'Italia che ogni anno esulta per il numero di bottiglie prodotte non è un sintomo di questo problema?Nelle altre grandi nazioni del vino c'è un esempio da seguire? «In Francia, ad esempio, le zone di eccellenza vinicole hanno forme di tutela, hanno sviluppato norme e consuetudini che vanno a esaltare le eccellenze senza danneggiare gli altri vitigni, che anzi beneficiano di tale situazione. Qui la situazione è scappata di mano. Non abbiamo governato questo fenomeno come merita, spinti dal miraggio del profitto immediato. Il Barolo è anche territorio, cultura e tradizione».
Non serve un ripensamento del rapporto produttore-mercati? «Si. Questo vale per tutto il settore agroalimentare. La soluzione è favorire un più stretto contatto e dialogo tra produttore e consumatore. Riducendo, in parte o del tutto, l’intermediazione che troppo influisce sui prezzi all’origine, senza portare alcun beneficio a chi acquista. Per ritornare al mondo vinicolo sembra di essere ai tempi in cui i commercianti venivano a comperare le uve al mercato di Alba imponendo ai contadini i loro prezzi. C’è una metafora ancora usata dagli anziani della Langa per indicare questa situazione: mettere le mani aperte dietro il fondo schiena. Cioè incassavano quello che gli veniva offerto senza possibilità di negoziare. Sembra di ritornare a quei tempi, con la differenza che adesso non si vende uva, ma vino sfuso».
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